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Alla scoperta dei Portici di via Po

Ci siamo passati centinaia di volte, ma forse non ci abbiamo mai fatto caso.

I portici di via Po a Torino hanno una caratteristica unica. Quelli sul lato sinistro, scendendo verso il Po, sono tutti coperti. Quelli sul lato destro  invece, negli incroci con le vie perpendicolari, sono scoperti. La ragione è semplice e storica.

Questa asimmetria viene ancora oggi ricordata dai torinesi che comunemente identificano i lati di via Po come Portici del Re o Portici della pioggia da una parte e lato del popolo o lato del sole dall’altra.

Durante la Seconda guerra mondiale, nel 1944, intensi bombardamenti la danneggiarono gravemente, soprattutto il lato destro della via.

Successivamente la via e i suoi edifici vennero recuperati e restituiti alla Città come si mostrano ai giorni nostri.

Nella prima metà dell’Ottocento, per volere di re Vittorio Emanuele I di Savoia, furono aggiunti i terrazzi a copertura dei passaggi pedonali in modo da consentire al sovrano e al suo seguito di raggiungere la chiesa della Gran Madre, che si trova oltre il ponte sul fiume Po, percorrendo indisturbato il tragitto da Palazzo Reale anche in caso di pioggia o di neve, senza mai bagnarsi. Dall’ altro lato il popolino invece poteva anche prendersi le intemperie.

Fu l’architetto Amedeo di Castellamonte che nella seconda metà del XVII secolo portò a compimento il progetto ambizioso. Fece costruire dei portici su entrambi i lati della via, che dalla contrada prese il nome che ha oggi: via Po. Ma è sul lato sinistro della via che collegando gli isolati con una innovativa soluzione a terrazze, formò una passeggiata tutta coperta da portici lunga 1.250 metri tra il Palazzo Reale e il corso dell’arteria.

Questa nuova via Po fu inaugurata nel 1674: sopra i porticati su entrambe i lati furono costruite ordinatissime residenze, tutte della stessa altezza su tre piani, che sono giunte a noi come furono concepite.

Come via Roma, anche la via Po fu considerata la passeggiata nobile della buona società, per tutto l’800, il 900 fino ai giorni nostri.

Basti ricordare come Edmondo de Amicis, quello del Libro cuore, nel suo Tre capitali celebra la passeggiata di Via Po come “il più bello spettacolo vivo e nello stesso il più originale che offra Torino. I portici sono i boulevards di Torino”.

Primo Levi passava per via Po con il padre per andare a trovare la nonna materna, e Luigi Einaudi si soffermava nelle botteghe dei librai antiquari che costellavano i portici e i negozi.

Via Po forniva un comodo passeggio ai torinesi e poi li accoglieva, ieri come oggi, nei suoi tanti caffè alla moda che con il tempo divennero pezzi di storia, quasi leggenda.

La via Po terminava sulla cosiddetta Piazza d’armi, che univa il ponte sul Po alla via verso Chieri.

In questa incisione in rame qui sotto, risalente al 1770 circa, si vede la fine della via Po sulla allora Piazza d’armi. Nota l’apertura dei palazzi sulla piazza a forma semicircolare, che mantiene la simmetria dei palazzi a tre piani e che prefigura già la soluzione che sarà adottata cinquant’anni più tardi.

Ma non è questa l’unica stranezza di via Po. La vecchia Contrada di Po (o Regina Viarum, la regina delle strade in considerazione della sua larghezza) è  lunga poco più di 700 metri e collega Piazza Castello al fiume. Se si osserva una pianta di Torino, si nota il suo non parallelismo con le vie limitrofe, costituendo così quasi una rottura nella geometria delle vie centrali di Torino. Il motivo è da ricercare nella necessità di collegare Piazza Castello all’ unico ponte esistente in città ai tempi della sua realizzazione (tra la fine del 1600 e i primi decenni del 1700).

In fine ricordiamo che tra i monumenti che Napoleone Bonaparte fece distruggere a Torino nei primi anni dell’Ottocento figurava la splendida Porta di Po (o porta Eridana), posta nell’attuale piazza Vittorio più o meno dove termina l’esedra con i portici in semicerchio. Opera del grande architetto Guarino Guarini, la porta di po era stata l’ingresso principale e scenograficamente più attraente della città settecentesca.